La Corte di Cassazione, sezione lavoro, si è pronunciata (n. 26331/2024) sulla gestione degli incarichi dirigenziali nell’ambito del pubblico impiego. Il caso tocca questioni centrali come il demansionamento, la correttezza nelle procedure di assegnazione degli incarichi e il rispetto della professionalità del personale.
Il caso in esame
La vicenda ha origine con una riorganizzazione interna dell’Agenzia delle Entrate, durante la quale al dirigente era stato assegnato un incarico di livello inferiore rispetto a quello precedentemente ricoperto.
La corte d’appello, nel 2019, aveva parzialmente accolto il ricorso del dirigente, riconoscendo un risarcimento per danni da demansionamento, biologico e non patrimoniale. Il conferimento di un incarico inferiore di due livelli rispetto al precedente, pur non comportando una riduzione economica, era stato considerato una lesione alla carriera e alla professionalità del dirigente.
La questione giuridica
Il demansionamento, inteso come attribuzione di compiti di livello inferiore rispetto a quelli precedentemente svolti, è disciplinato dall’art. 2103 del Codice Civile, che tutela il lavoratore dal vedersi assegnare incarichi non conformi alla propria qualifica.
Nel caso dei dirigenti pubblici, tuttavia, la normativa (D.Lgs. n. 165/2001, art. 19) concede una certa discrezionalità all’amministrazione nella gestione degli incarichi dirigenziali.
La Cassazione, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ribadito che per i dirigenti pubblici non si può applicare rigidamente il principio dell’equivalenza delle mansioni, ma è necessario valutare caso per caso se vi sia stata una violazione del principio di correttezza e buona fede.
La decisione della Cassazione
Nella sentenza in commento, la Cassazione ha annullato la decisione della corte d’appello, che aveva risarcito il dirigente senza valutare adeguatamente le modalità con cui l’amministrazione aveva gestito la procedura di assegnazione degli incarichi.
La Suprema Corte ha infatti chiarito che la mancata assegnazione di un incarico equivalente non costituisce automaticamente un demansionamento, ma è necessario dimostrare che l’amministrazione non abbia rispettato i criteri di correttezza, buona fede e imparzialità, come richiesto dall’art. 97 della Costituzione.
Vanno infatti tenute distinte due situazioni giuridiche che fanno capo al dirigente: una (diritto soggettivo) che dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno; l’altra (interesse legittimo privato) che non legittima il dirigente a richiedere l’attribuzione dell’incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti.
Il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l’attribuzione dell’incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all’inadempimento degli obblighi gravanti sull’amministrazione.
Tali obblighi impongono alla pubblica amministrazione di effettuare valutazioni anche comparative, adottare di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali, esternare le ragioni giustificatrici delle scelte. Qualora l’amministrazione non fornisca nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella scelta dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile.
La Cassazione ha inoltre sottolineato che, in assenza di un danno evidente e comprovato alla professionalità del dirigente, non si può presumere l’esistenza di un danno “in re ipsa”, ovvero un danno implicito e automatico dovuto solo al cambiamento dell’incarico.
Questo principio è stato ribadito anche in sentenze precedenti (Cass. 7 gennaio 2019, n. 137; Cass. Sez. Lav. 2020, n. 5546), nelle quali si è chiarito che l’onere della prova del danno grava sul lavoratore.
Pertanto, di fronte ad una motivazione mancante, carente o illegittima, la domanda risarcitoria ha la sostanza del “risarcimento da perdita di chance”. Il giudice dovrà dunque accertare se chi agisce avesse una significativa probabilità di essere prescelto e, in caso positivo, calcolare il risarcimento in misura tale da tener conto dell’incertezza comunque sussistente in un giudizio ipotetico.
Conclusioni
La sentenza della Cassazione conferma che, nel pubblico impiego, il conferimento di incarichi dirigenziali deve essere gestito con trasparenza, rispettando i criteri di merito e correttezza. Il demansionamento non può essere presunto solo in base al livello dell’incarico, ma deve essere dimostrato un reale pregiudizio alla professionalità del lavoratore.